samedi 24 janvier 2015

Otto storie di vite - il desk - 17/01/15

Otto storie di vite nel Dormitorio di Napoli, Iodice restituisce l'identità agli ultimi
Suggestiva rappresentazione di Mettersi nei panni degli altri/Vestire gli ignudi, mandata in scena al Centro di Prima Accoglienza
NAPOLI - Maiuscola e suggestiva rappresentazione di Mettersi nei panni degli altri/Vestire gli ignudi, mandata in scena da Davide Iodice al Centro di Prima Accoglienza (ex Dormitorio Pubblico). Il lavoro è il primo movimento del progetto di ricerca e creazione  Che senso ha se solo tu ti salvi, ispirato a Le Sette opere di Misericordia  di Caravaggio. Con esso prosegue il percorso teatrale del regista napoletano sulla crisi della società contemporanea intrapreso con i precedenti  La fabbrica dei sogni e  Un giorno tutto questo sarà tuo. In un anno Davide Iodice ha raccolto le storie di alcuni ospiti del dormitorio nel momento in cui hanno "perso la loro identità" e le ha messe in scena con loro stessi protagonisti, affiancati da attori che sono specialisti dell'esistenza e della scena. Sono degli assistenti "magici" che li aiutano con la loro maieutica a fare venire fuori l'evocazione.  Lo spettacolo si svolge in otto stanze per otto storie e compone un sorprendente affresco esistenziale e umano, capace di cogliere e restituire il valore della dignità di ogni singolo. Gli spettatori, guidati, da un attore con il volto mascherato, iniziano la loro visita. La prima stanza è la Lavenderia in cui si svolge il prologo del lavoro che ha come tema la ricerca dell'Identità. Si parte da un cappotto vuoto e da  una musicista che suona il violoncello.  Compare, quindi, una  figura che si spoglia togliendosi di dosso moltissimi abiti maschili e femminili a simboleggiare tutte le identità che sono accolte nel dormitorio. La scena termina con il personaggio che si accascia sui fili dei panni del bucato e viene coperto da un lenzuolo bianco che la giovane musicista spande. E' un'anima sulla città e un chiaro riferimento a Michelangelo. Nel Guardaroba si racconta la storia di Maria. Legge i tarocchi e declama due sue poesie molto belle. In quel guardaroba arrivano le giacche che vengono stirate e numerate per essere, poi, attribuite ad ogni persona ospitata nel dormitorio: rappresentano i destini di ciascuno di loro e il numero è quello del letto che gli è stato assegnato. La visita continua e si arriva nella prima stanza del dormitorio., la Stanza del mare. Su una rudimentale barca a remi Giovanni, un pescatore di coralli, racconta la sua vita trascorsa anche in un mare di alcol.  E' divento alcolista, perdendo l'identità, per la morte della moglie. Quindi si va nella Stanza degli sposi. Qui la perdita dell'identità è la perdita della moglie. Si arriva alla Stanza di Luciano, un uomo che ha rotto con gli schematismi familiari e con le convenzioni. Sceglie la libertà che però lo rende un emarginato perchè gli altri lo mettono da parte. Raccoglie gli oggetti dimenticati e attraverso questi cerca di ricostruire una sua affettività. Il percorso continua nella Cappella dove Antonio declama una sua bellissima poesia il cui incipit è "Non correrò più nell'orto di mia madre". Parla, come se fosse un sogno, dell'armonia perdura, della nostalgia del passato. Molto suggestiva la drammatizzazione fatta da Iodice con l'evocazione delle figure chiave descritte nella poesia. Poi si va nella stanza dell'Emergenza dove Osvaldo racconta del momento della perdita della sua identità quando il figlio, investito da un pirata della strada, diventa tetraplegico. Osvaldo amava la corsa, era molto bravo, ma per una sua intemperanza non riuscì a vincere la medaglia messa in palio in una competizione. Iodice gliela dà simbolicamente nella Corsa, quando tutti i protagonisti, ciascuno secondo le proprie possibilità, fa una corsa su una pista allestita nel grande atrio del dormitorio. Uno alla volta tagliano il traguardo dove c'è uno specchio in cui ciascuno si riconosce e trova la propria idenità. Di grande effetto il momento in cui tra le mani degli attori e spettatori, disposti in circolo, passa il filo rosso del traguardo chiudendosi a cerchio a simboleggiare il sorgere del rapporto empatico di tutti con tutti. La rappresentazione si chiude con il cantautore Bruno Limone che canta "Le cose che dovevo fare quando le dovevo fare", accompagnato al violoncello dalla musicista che si è tolta la maschera come tutti gli altri.  Gli Interpreti sono, Antonio Buono, Davide Compagnone, Luciano D’Aniello, Maria Di Dato, Giuseppe Del Giudice, Pier Giuseppe Di Tanno, Raffaella Gardon, Ciro Leva, Osvaldo Mazzeca, Vincenza Pastore, Peppe Scognamiglio, Giovanni Villani. Collaboratore generale Luigi Del Parto ;  spazio scenico, maschere e costumi  Tiziano Fario ;  produzione  Teatro Stabile di Napoli, Interno 5, Fondazione Campania dei Festival, Napoli Teatro Festival Italia ;  collaborazione  Centro Prima Accoglienza (ex Dormitorio Pubblico), Scarp De Tenis, Binario della Solidarietà – Napoli.
(Foto davideiodice-teatro.it)
Mimmo Sica


vendredi 23 janvier 2015

Scena Caravaggio - La Repubblica 15/01/15

TRE giorni  -  da domani a domenica, repliche alle 16 e alle 18 per venti spettatori a turno, info 081 5524214  -  per vivere un esperimento teatrale al Centro di prima accoglienza (ex dormitorio pubblico) in via de Blasiis, alle spalle di via Duomo. Va in scena il primo movimento del progetto di Davide Iodice "Che senso ha se solo tu ti salvi", ispirato a "Le sette opere di misericordia" di Caravaggio. S'intitola "Mettersi nei panni degli altri - Vestire gli ignudi" e vede uno accanto all'altro attori professionisti e residenti della struttura: Antonio Buono, Davide Compagnone, Luciano D'Aniello, Maria Di Dato, Giuseppe Del Giudice, Pier Giuseppe Di Tanno, Raffaella Gardon, Ciro Leva, Osvaldo Mazzeca, Vincenza Pastore, Peppe Scognamiglio, Giovanni Villani.

Iodice, il suo teatro entra nella vita quotidiana e non è estraneo né a chi fa lo spettacolo né a chi lo guarda. È così?
"L'obiettivo è sicuramente riportare il teatro nel vivo del corpo sociale. Ne ha bisogno, direi. Provo a restituire al linguaggio teatrale la sua funzione comunitaria, catartica. Non amo la definizione di teatro sociale ma credo che questa sia la sola formula. Il teatro deve appartenere alle nostre esistenze, altrimenti non è".

"Mettersi nei panni degli altri". Proverbio abusato, magari incompreso, che diventa input del copione. Su quali intese si stabilisce la convivenza tra chi abita il Centro di prima accoglienza e i suoi attori?
"Sulla sensibilità reciproca. È questo il principio con cui scelgo il cast, in primis chi recita per professione. Debbono essere specialisti dell'esistenza. In questo passaggio, gli attori si offrono agli abitanti dell'ex dormitorio come assistenti magici. Per me è essenziale lavorare sull'umanesimo, specie in questi contesti borderline".

Borderline come questa speciale tela del Caravaggio.
"È un'opera per me essenziale. Accompagna fin dal primo istante la mia ricerca espressiva. Considero questo quadro il mio amuleto perché è indubbiamente e fortemente rappresentativo di Napoli. Esprime empatia, compassione. La posizione di Caravaggio è avere attenzione sugli emarginati, mai sui potenti".

Quale valore ha, per lei, il fatto che lo spettacolo sia inserito nel cartellone dello stabile Mercadante, anche se fuori dalle sedi tradizionali?
"La mia felicità è che il progetto sia sostenuto dal teatro della città. Ma è una produzione assai complicata da realizzare. Un attore che lavora in Francia mi ha detto che ogni Paese europeo l'avrebbe trasformata in una creazione annuale. Stabile, per l'appunto. Qui non credo che avverrà mai".

La poesia nel dormitorio - Gli stati Generali 17/01/15

La poesia nel Dormitorio Pubblico di Napoli

17 gennaio 2015
Tra i tanti volti di Napoli, questa città eternamente sospesa tra l’implosione e l’esplosione, si rintracciano altrettante possibilità creative, tutte vere e vive: nel rutilante e decadente teatro a cielo aperto, gli artisti rispecchiano di volta in volta aspetti particolari, dettagli minimali, visioni, possibilità. C’è la Napoli dei De Filippo e quella di Viviani; quella di Pino Daniele e quella dei neomelodici; quella di La Capria e della Ortese; quella della Camorra e quella della solidarietà.
A teatro si rinfrangono questi sguardi, si moltiplicano i racconti, le voci, gli scorci. Il regista Davide Iodice ha da anni scelto di abbracciare uno dei volti meno eclatanti o consolatori: la Napoli della marginalità, dei reietti, degli abbandonati.
Senza retorica, ma con rispetto e ascolto, Iodice vive il suo radicale legame con la città frequentando le emarginazioni, e da cinque anni lavora in uno spazio inquietante e bellissimo, l’ex Dormitorio Pubblico, per un progetto creativo di struggente bellezza e grande valore civile. Con l’importante sostegno produttivo del Teatro Stabile, del Napoli Teatro Festival (bello, e da sottolineare, che strutture simili scelgano di dare forza e spazio a imprese del genere: fortunatamente “antiproduttive” e “antispettacolari”) e della dinamica Interno5, Iodice torna con un nuovo spettacolo  che è una discesa negli abissi dell’animo umano, un perdersi nei labirinti di quel girone infernale che è l’ex Dormitorio.
Sono gli ospiti della struttura, infatti, che si fanno protagonisti di Mettersi nei panni degli altri /Vestire gli ignudi, primo movimento di un progetto titolato “Che senso ha se solo tu ti salvi”.
Con i loro volti semplici, a volte segnati dal tempo e dalla fatica; con le loro voci vere e i loro sorrisi; con, sulle spalle, il peso di chi è ferito ma non rinuncia alla propria dignità.
Il pubblico si muove in un percorso articolato, non lineare. Scale, corridoi bui o stanzette minime, adornate di pochi oggetti dal forte valore simbolico (le scene sono di Tiziano Fario). Ecco allora la lavanderia all’ultimo piano: qui, al suono di un violoncello, attraverso un vetro incrinato si vede il mare e poco lontana, all’orizzonte, la retorica bellezza di Capri. Ma è la realtà del Dormitorio ad imporsi, nei santini attaccati al muro, nella lana delle coperte; nei lettini allineati o negli odori della sartoria, dove una donna legge tarocchi o amare poesie.
Lo spettacolo ha momenti commoventi: la storia del cantante e del suo amore per una donna persa troppo presto; quella del pescatore di coralli, che continua a dipanare la rete e i propri ricordi; la storia del velocista mancato, vittima di un’infanzia davvero faticosa, o di quell’uomo che nasconde oggetti e tracce del passato nel proprio armadietto. Sono frammenti, piccoli quadri, suggestioni appena sussurrate, come quella di una farfalla fatta di nulla che vola via, o di un vecchio filmino super8 che rischiara il buio, di un ragazzo immobilizzato a letto che finalmente può tornare a danzare, o di una spoglia cappella che può diventare un giardino.
Nel labirinto, gli spettatori  seguono maschere enigmatiche (bellissime) e incontrano questi racconti veri e dolenti: non vi è mai commiserazione, semmai empatia, o consapevole e rispettosa partecipazione. Queste persone, con le loro storie, non si fanno “personaggi”, sono semplicemente testimoni della propria esistenza.
Nei suoi interventi registici, nel disegno generale, Iodice evoca non solo il teatro di Kantor, ma rimanda anche ai ritratti umani di Danio Manfredini o la poetica amara e vitalissima di Antonio Neiwiller: chiama in causa, nelle note di regia, il Caravaggio de Le sette opere di misericordia, mentre il titolo evoca certamente il Pirandello più complesso.
Sono riferimenti importanti, naturalmente, ma forse non bastano – e addirittura non servono – per connotare lo spettacolo. Che come Napoli ha mille volti, quante sono le storie che nasconde nella sua oscurità. Mentre fuori dalla finestra le luci del tramonto regalano squarci di retorica bellezza, nell’ex Dormitorio Pubblico si consuma la vita.
Il Teatro, si sa, è poca cosa: però qui, per una volta, anche i vinti del Dormitorio Pubblico possono essere vincitori e al traguardo finale c’è una medaglietta per tutti. E negli applausi sinceri e condivisi si mescola il sorriso amaro della commozione.

" Questo sono io " - il Pickwick 18/01/15

"Questo sono io"

Scritto da 

In questo dipinto la misericordia diventa appannaggio
umano, dovere della società civile, aiuto in chi versa
in condizioni disagevoli e di fatto è oppresso dalla
miseria, dall’indigenza, dalle malattie  ed è perseguitato
dalla sventura. Inoltre, in  ciascun personaggio,  c’è
quella  dignità che è  la condizione indispensabile
della persona umana.
                        
(Vincenzo Pacelli, Caravaggio)
(come lo racconto?)
Ci sono molti modi per raccontare Mettersi nei panni degli altri ma non ho chiaro quale sia adatto davvero. Attraverso il Centro di Prima Accoglienza: ne salgo e scendo le scale, mi siedo su un letto, ne passo i corridoi; ne sento il freddo quando giungo nella grande camerata, ne intuisco il silenzio quando visito una stanza più piccola, laterale, più scura; cerco e trovo con lo sguardo qualche segno che mi rimandi a chi lo abita adesso: un mazzo di carte, un cane di peluche nero e marrone, una valigia di tela; una cornice che contiene il volto della Madonna, una bottiglietta di plastica, la scritta “Solo Gesù ti aiuta” su una cassetta del pronto soccorso. E la pila di “lenzuola per sotto con gli angoli”, di “camicie estive ½ maniche” o di “camicie estive manica lunga” che vedo in stireria. Allora penso che un buon modo d’iniziare la recensione sia proprio rendere questo mio andare che poi è l’andare che Davide Iodice m’impone: devi camminare se vuoi incontrare qualcuno, se vuoi sentirne la storia, se vuoi vederlo mentre ti parla e ti dice di sé e – quindi – cammina in questo posto, cammina ed osserva e, quando sei giunto, fa silenzio ed ascolta, poi voltati e torna di nuovo a camminare.
Ma basta il moto visivo? Basta, per fare recensione, limitarsi agli uomini e alle donne di questo luogo, coi loro occhi imbolsiti, i sorrisi senza denti, le mani nodose? Oppure è più giusto mettere in pagina un discorso sugli ultimi, sugli emarginati, sugli sconfitti, producendo magari un campionario di chiacchiere su chi poteva farcela e non ce l’ha fatta, su chi avrebbe voluto, su chi stava per?
Ho paura della retorica. Così rifletto e penso che non mi basta il volto di Antonio, non mi basta l’incontro con Peppe, non mi bastano gli occhi di Maria. Non mi bastano perché Antonio, Peppe e Maria, sono parte di un discorso che riguarda la vita ma che si esprime attraverso il teatro. È quindi dal teatro che devo partire, se voglio scovare la vita in questo spettacolo.

(la coralità individuale)
C’è una nuova forma di coralità che appartiene da almeno vent’anni al teatro. Si tratta di una coralità individuale, formata cioè da racconti singoli messi in sequenza, da prospettive personali che s’intrecciano o si susseguono, che fa dell’estrazione una messa in comune e dell’isolamento il presupposto per un discorso collettivo. Rifiutato il dialogo, forma ipocrita dello stare assieme, questa coralità vive di monologhi, espone il privato e si affida a voci uniche, differenti, diverse. L’insieme di queste voci fa il coro mentre – un tempo – il coro uniformava le voci singole costringendole a dire all’unisono.
C’è questa nuova forma di coralità, da almeno vent’anni, in teatro. È una forma che riesce a tessere un discorso generale attraverso parole specifiche, che fa con le storie una Storia e che produce unità attraverso la dispersione, per cui abbiamo un attore in un luogo, un altro in uno spazio lontano, distante, posto più in alto o più in basso. Esaltazione apparente della soggettività all’interno di un contesto paritario, decentralizzazione spaziale, testualità disgiunta e che si compone in accumulo ne sono le conseguenze formali. Questa coralità individuale – riflesso teatrale della parcellizzazione sociale e politica contemporanea – riesce, quando funziona, a mettere assieme ciò che è accaduto separatamente, fonde senza annullare, espone senza ridurre: gli interpreti, pur ascoltati uno ad uno, diventano un corpo comune, un medesimo fatto, un’unità drammaturgica.
Antonio, Peppe, Maria e Ciro, Osvaldo, Luciano, Giovanni valgono per sé ma sono un tutt’uno; espongono lacerti della propria esistenza ma questi lacerti – senza perdere la loro caratterizzazione e senza annullarsi vicendevolmente – compongono una meta-narrazione più ampia, che riguarda loro, riguarda chi è in condizioni simili, che finisce per riguardare anche me, tutti i presenti, voi che leggete.
Dunque.
A me sembra che Mettersi nei panni degli altri sia fatto di questa coralità individuale; a me sembra che abbia come fonte primaria ciò che appartiene ad Antonio, Peppe o Maria; che rispetti questa soggettività iniziale consentendo ad Antonio, Peppe o Maria di raccontarsi, ma poi riesca a fare – di ciò che dicono Antonio, Peppe o Maria – un canto generale. Siamo in presenza, quindi, non di una moltitudine offerta nel suo complesso ma di una pluralizzazione di corpi singoli che diventa moltitudine e ascoltiamo una molteplicità di solitudini che smettono di essere solitudini nel momento stesso in cui vengono coordinate e concatenate tra loro in spettacolo.
“Buonasera, sono Maria. Questo gioco divinatorio mi è stato insegnato da una signora di Ercolano”.
“Io sono stato molte cose: sono stato un pescatore di coralli, ho fabbricato i fuochi d’artificio con mio padre e sono stato un ebanista. Poi sono stato marito e padre”.
“Mia moglie l’ho conosciuta a una festa di alcuni parenti: è là che l’ho vista”.
“Io conservo tutto quello che mi regalano, non consumo tutto subito”.
“Perché, degli anni belli, ogni ricordo è amaro?”.
Un matrimonio interrotto dalla morte; un figlio immobile in un letto; gli oggetti conservati in una scatola; la lettura delle carte per inventarsi il destino; l’orto materno, nel quale non si correrà più. Un portagioie decorato di conchiglie, scarpe da ginnastica, caramelle. “Le cose che dovevo fare, quando le dovevo fare”. “Quel bimbo ero io, lo devo ricordare”. “Ho cercato di nuovo l’amore ma non l’ho trovato, non lo troverò più”.
Frammenti che appartengono a un solo volto, che vengono da una sola cassa toracica e che sembrano sostare separati, ognuno d’essi confinato all’interno di una stanza, ma che sono messi in contatto dalla regia, come perle una ad una con un filo: agli spettatori seguire il filo. Frammenti che, per quanto stanziali, finiscono per viaggiare col viaggiare del pubblico, frammenti che mi restano addosso quando varco l’uscita di una camera e che porto con me nella camera successiva. Frammenti individuali che fanno così coro riuscendo a unire chi parla, me che ascolto, gli altri che mi sono accanto.
Frammenti di vita di Antonio, di Peppe o di Maria che smettono – in questa maniera – di essere solo di Antonio, di Peppe o di Maria: diventando teatro.  

(la teatralizzazione del reale)
Il secondo aspetto che mi colpisce di Mettersi nei panni degli altri è la teatralizzazione del reale. Iodice non si limita a posizionare uomini e donne perché espongano, in maniera ordinata e diretta, le loro storie ma, queste storie, le mette in scena, le metaforizza o le coniuga artisticamente, accompagnandole con una figurazione ulteriore. Attori − in maschere neutre ma perfettamente aderenti − appaiono, avanzano, prendono parte al racconto dandogli corpo, movenze, sostanza. Penetrano la vicenda – questi attori – (con)fondendosi con chi l’ha vissuta e, in questo contatto fisico, credo ci sia il senso dell’intero lavoro: la vita (coloro che abitano il Centro) alimenta il teatro (gli attori); vita e attori si sfiorano, si toccano, coabitano e si danno manforte per il breve tempo dell’esposizione; infine – come è giusto che sia – il teatro termina (gli attori cioè spariscono) e non rimane che la vita, da sola, intenta a contemplare la fine del suo raccontarsi.
Abbiamo quindi, per ogni narrazione dello spettacolo, lo stesso principio dinamico e realizzativo: persona/vita vera, principio della narrazione; apparizione degli attori, inizio del teatro; persona e attore assieme/esposizione della vita e sua traduzione in forma teatrale; sparizione degli attori, termine del teatro; persona da sola/storia vera che resta, sfumata la messinscena.
Questo principio mi aiuta anche a dire cos’è complessivamente Mettersi nei panni degli altri: è teatro che prende inizio dalla vita, è vita che porta al teatro, è vita che necessita del teatro per farsi conoscere, è teatro che si nutre della vita per farsi teatro, è insieme di vita e teatro, è forma del teatro data al ricordo della vita, è maschera in aggiunta ad un volto, è volto che per farsi vedere necessita di una maschera, è verità che produce menzogna ed è menzogna fatta di verità.
L’anziano (vita) che abbraccia se stesso bambino, sotto forma di burattino di legno (teatro); la danza (teatro) di un padre e di un figlio, in un cambio di ruoli tra chi aiuta e chi viene aiutato (vita); le carte che diventano giacche (teatro), le giacche che sono destini e persone (vita); una scarpetta rossa (teatro), per simboleggiare l’incontro con una figlia (vita); l'ombra di un'attrice (teatro) sulla proiezione di un filmino matrimoniale (vita); una pedana di legno (teatro) che si fa nave (vita); una ragazza (vita) che diventa farfalla, una farfalla che diventa speranza, una speranza che prende il volo e scompare (teatro).
Così, il teatro e la vita, in Mettersi nei panni degli altri.  

(Caravaggio)
In una data che non conosciamo, nonostante i documenti di antica e recente acquisizione, i deputati del Monte della Misericordia di Napoli si rivolgono a Caravaggio perché dipinga un quadro per l’altare maggiore della loro chiesa. Un artista di fama e prestigio, in grado di dare lustro all’istituzione. I committenti sono tutti giovani, tra i venti e i trent’anni, e nobili. Questi stessi giovani nobili sarebbero dovuti essere tra le figure del quadro: le loro iniziative benefiche (tra cui il Vestire gli ignudi che fa da sottotilo allo spettacolo) sarebbero state così testimoniate iconograficamente ne Le Sette Opere di Misericordia. Il saldo della committenza è del gennaio 1607. Quattrocento ducati. Caravaggio pesa i denari, accetta l’incarico, lo riforma a suo modo.
C’è un aspetto che mi colpisce de Le Sette Opere di Misericordia: nessuna delle figure osserva in alto. Volano gli angeli, vola la Madonna tenendo il Bambino, eppure lo sguardo di uomini e donne è orizzontale, paritario, medio-basso. È la terra, e non il cielo, il luogo di questa misericordia; la terra sono le strade, le piazze, i vicoli di Napoli. Caravaggio rinuncia ai volti dei nobili e, pur usufruendo di fonti storiche antiche e inscenando figure ultramondane, trascina sul palco (ovvero sulla tela) uomini e donne d’origini modeste, urbane. Una popolana che allatta il vecchio alla grata della prigione, il gentiluomo che spartisce il mantello col mendicante nudo, l’uomo che illumina un cadavere, l’oste e l’albergatore che danno da bere all’assetato, gli angeli-lazzari, “ripresi” – come dice Roberto Longhi – “dalla verità di Forcella o di Pizzofalcone”. Pezzenti, miseri, colpevoli di cui Caravaggio sente il bisogno per la rappresentazione. Vita vera, vita che il pittore incrocia a passeggio, vita che freme e ha mal odore e barba sfatta o forme abbondanti e in cui s’imbatte mentre cammina: da casa alla locanda o, dalla locanda, tornando verso casa.
Mettersi nei panni degli altri – leggo dal comunicato – “è un percorso di ricerca e creazione ispirato a Le Sette Opere di Misericordia di Caravaggio”. Ma in cosa consiste questa ispirazione? A me sembra che sia un errore cercare – in ciò che osservo – un rifacimento, anche solo parziale, della tela. Non ci sono tableux vivant, non c’è ripresentazione di scene che appartengono al quadro, non c’è una volontà di togliere dalla parete il capolavoro per farlo apparire in forma teatrale al Centro di Prima Accoglienza.
Più profonda è l’ispirazione di Davide Iodice e riguarda il bisogno della vita (nella sua dimensione più misera, dimenticata o rimossa, nascosta) per fare teatro, così come Caravaggio sente il bisogno della vita per comporre il dipinto. Mettersi nei panni degli altri ha come riferimento Le Sette Opere di Misericordia non per ciò che il quadro espone, per ciò cui allude o per la committenza da cui deriva, ma per questo bisogno irrefrenabile, necessario e insostituibile di Caravaggio a rifarsi ai ragazzi che corrono in strada, agli anziani che tossiscono in un angolo, alle donne che portano le ceste al mercato, ai mendicanti che distendono la loro mano nella folla senza ricevere nulla. Di questa verità sente il bisogno la pittura di Caravaggio, di questa verità sembra sentire il bisogno il teatro di Davide Iodice.
Perciò gli abiti dimessi e confusi sul pavimento, la macchinina di metallo e il carillon adagiati sul letto, una lavatrice e il suo rumore, le foglie di carta marrone, il violoncello, le ombre formate sui muri, il soffio sulle candele, i versi poetici, il suono dell’acqua di un pozzo battesimale, lo specchio che vedo in Mettersi nei panni degli altri hanno la stessa funzione che – ne Le Sette Opere di Misericordia – hanno le ali degli angeli, la fiaccola ai piedi del morto, la veste bronzea e bianca della donna, la lunga barba del vecchio, il vello, il getto d’acqua, la mascella d’asino: sono la forma con cui si rende ciò che è vero, sono ciò che ne deriva e che pure è necessario perché – ciò che è vero – resti negli occhi di chi guarda.
È caravaggesco Mettersi nei panni degli altri non perché ha la stessa prospettiva dinamica, la stessa verticalità, la stessa aggregazione dei corpi o la stessa penombra lucente: è caravaggesco perché afferma, dichiara ed espone il legame – indissolubile, per Iodice – tra ciò che esiste e ciò che sembra, tra ciò che appare e ciò che è.
“Questo sono io” dice un abitante del Centro di Prima Accoglienza, mentre la finestra si spalanca e due ventagli iniziano un battito d’ali a mezz’aria. Da lontano, il regista osserva, stando alle spalle del pubblico.






Mettersi nei panni degli altri. Vestire gli ignudi
drammaturgia e regia Davide Iodice
con Antonio Buono, Davide Compagnone, Luciano D'Aniello, Maria Di Dato, Giuseppe Del Giudice, Pier Giuseppe Di Tanno, Raffaella Gardon, Ciro Leva, Bruno Limone, Osvaldo Mazzeca, Vincenza Pastore, Giovanna Racic, Peppe Scognamiglio, Giovanni Villani
collaboratore generale Luigi Del Parto
spazio scenico, maschere e costumi Tiziano Fario
produzione Teatro Stabile di Napoli, Interno 5, Fondazione Campania dei Festival-Napoli Teatro Festival Italia
collaborazione Centro Prima Accoglienza (ex Dormitorio Pubblico), Scarp De Tenis, Binario della Solidarietà
lingua italiano, dialetto napoletano
durata 1h 30'
Napoli, Centro Prima Accoglienza – Ex Dormitorio Pubblico, 16 gennaio 2015
in scena dal 16 al 18 gennaio 2015

vendredi 2 janvier 2015

METTERSI NEI PANNI DEGLI ALTRI / vestire gli ignudi - Ripresa - Teatro Stabile Napoli - gennaio 2015


METTERSI NEI PANNI DEGLI ALTRI

Vestire gli ignudi


scrittura scenica collettiva realizzata insieme agli ospiti del Dormitorio Pubblico di Napoli
primo movimento del progetto 
Che senso ha se solo tu ti salvi
un percorso di ricerca e creazione ispirato a Le Sette opere di Misericordia di Caravaggio

drammaturgia e regia Davide Iodice
con Antonio Buono, Davide Compagnone, Luciano D’Aniello, Maria Di Dato, Giuseppe Del Giudice, Pier Giuseppe Di Tanno, Raffaella Gardon, Ciro Leva Osvaldo MazzecaVincenza Pastore, Peppe ScognamiglioGiovanni Villani
collaboratore generale Luigi Del Parto
spazio scenico, maschere e costumi Tiziano Fario
produzione Teatro Stabile di Napoli, Interno 5, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia
collaborazione Centro Prima Accoglienza (ex Dormitorio Pubblico), Scarp De Tenis, Binario della Solidarietà – Napoli


Centro Prima Accoglienza (ex Dormitorio Pubblico) 16, 17 e 18 gennaio 2015
ore16.00 e ore 18.00


Che senso ha se solo tu ti salvi è parte di una trilogia che Davide Iodice dedica alla crisi della società contemporanea: nei due lavori precedenti, La fabbrica dei sogni e Un giorno tutto questo sarà tuo, aveva affrontato rispettivamente il tema del sogno con gli ospiti del Dormitorio Pubblico di Napoli, e quello dell’eredità generazionale mettendo genitori e figli in scena.
Con questo nuovo lavoro il regista si è posto come materia di indagine il concetto di compassione, nel senso etimologico di empatia, di relazione vitale. Il suo soggetto di ispirazione sono le Sette opere di Misericordia di Caravaggio. Anche qui la ricerca unisce indagine antropologica e espressiva, attraverso un processo di laboratori e di residenze creative con attori e non attori accomunati dalla ricerca di un linguaggio condiviso e di una stessa intenzione di senso. “Caravaggio costituisce un riferimento formale e metodologico costante nel mio lavoro”, spiega il regista in una sua nota, “quasi un correlativo oggettivo, che qui ho inteso esplicitare assumendo una delle sue opere più identitarie per la nostra città.
Da qui sono partito per una ricerca espressiva che continui quella riflessione sulla crisi della società contemporanea avviata nel 2010 con La fabbrica dei sogni e proseguita con Un giorno tutto questo sarà tuo. La perdita dell’identità, la ricostruzione dei sentimenti, la paura della alteritá, la disintegrazione di un sentire collettivo e, al suo opposto, la necessità di essere riconosciuti e accolti, sono alcuni dei temi diversamente declinati nei gruppi di lavoro dall’O.P.G. alla comunità migrante, fino agli ospiti del Dormitorio pubblico. Qui ritorno con un debito di riconoscenza e con la certezza che l’uomo può essere uomo ovunque”.

Je V(o)eux 2015