mercredi 9 décembre 2015

Zooschool, la (vera) scuola degli orrori


zoo school
Il primo lungometraggio del regista indipendente Andrea Tomaselli, Zoo School, passa attraverso il genere per parlarci di problemi reali.
di Massimo Arciresi

Il grande schermo rimane il miglior modo per fruire di un film, e su questo non si discute. Tuttavia oggi esistono canali alternativi progressivamente più numerosi, dalla televisione ai dvd, dalla pay per view allo streaming (legale, non c’è bisogno di specificarlo). In un momento in cui l’industria cinematografica è costretta ad adattarsi alle moderne tecnologie e in una fase nella quale i nuovi cineasti desiderano diffondere i loro lavori senza dover supplicare produttori e/o distributori sempre meno disposti a investire e – di fatto – a rischiare, non è detto che sia un male. Anzi, è una maniera per farsi conoscere rapidamente, soprattutto se si propone un risultato di qualità.
Per esempio, è una meritevole opportunità (che non esclude naturalmente auspicabili future programmazioni in sala) per il quarantaduenne catanese Andrea Tomaselli, insegnante di Italiano e Storia a Settimo Torinese e di Sceneggiatura e Regia presso la Scuola Holden di Torino, debuttante nel lungometraggio di finzione – dopo una fitta esperienza fra racconti, copioni e corti – con Zoo School, girato nel 2013 e dal giugno 2015 reperibile, a costi irrisori di noleggio e vendita, su Vimeo (www.zooschoolthemovie.com), opera che proprio nella scrittura tematica e nell’attenta direzione degli attori ha i suoi pregi maggiori.

Ambientata sapientemente all’interno dell’istituto professionale dove Tomaselli è in organico, la trama è incentrata su varie vicende paradigmatiche dello stato attuale della scuola italiana, con un professore di sostegno che si sbraccia ai consigli di classe perché non ci siano disparità di diritti fra gli allievi, due studenti (con simbolico cane al seguito) presi di mira, una preside dispotica, una vicepreside cinica, docenti esauriti, sottomessi, profittatori, un alunno fragile, un altro irrequieto, una bidella insospettabilmente sadica, una psicologa volenterosa. Ognuno di loro ha qualcosa da nascondere o da rimproverarsi, da subito o nel corso della narrazione. Che, bisogna sottolineare, attinge senza strafare da degradi – umani e legislativi – veri o verosimili (peraltro inerenti a temi scottanti come l’immigrazione, l’emarginazione, la tossicodipendenza, la pedofilia), per poi deflagrare in un finale tanto cruento quanto calibratamente allegorico, annunciato in sordina dal prologo e coerentemente privo di speranze. Se alla bravura di regista e interpreti (fra loro il più noto è Natalino Balasso, ben distante dal suo cabaret) aggiungiamo la notevole perizia del montaggio – per una durata complessiva adeguatamente “secca” di appena 78 minuti, compresi i dettagliati titoli di coda (la capacità di concisione spesso manca agli esordienti) – e l’accuratezza della fotografia, l’efficacia delle musiche, la credibilità di dialoghi non artefatti, possiamo tranquillamente asserire di essere di fronte a un prodotto di alto livello, rifinito nei particolari (persino le immancabili citazioni di classici restano educatamente sommesse): davvero pochissime le imperfezioni, anche in considerazione delle limitate risorse a disposizione. Fra i finanziatori collabora Michele Fornasero, che di recente ha firmato il bel documentario SmoKings; un’attenzione, la sua, che conferma ulteriormente la nascita di un autore da seguire. Dategli più mezzi (privi di steccati) e ci stupirà!

http://www.inchiestasicilia.com/2015/11/27/zoo-school/

ZOOSCHOOL is back !

Il manifesto - Maria Grosso


Psicopatologia da una scuola quotidiana. Istituto superiore professionale. Visioni che si infrangono su sbarre e muri; corridoi come passaggi minati, traiettorie caotiche di esseri apparentemente umani (ancora per quanto?): studenti, personale Ata, personale docente – nella versione di ruolo, o in quella fantasmatica prodotta dalla precarietà migrante – “personale telefonico-portatile”, dirigente, collaboratrice della dirigente, eventualmente un dobermann nella telecamera a circuito chiuso, una sola psicologa (!), e aria gelida sbattuta in faccia da un inverno del nord Italia. Manco a dirlo, piove. A ogni goccia di frustrazione iniettata in vena di uno dei protagonisti può corrispondere il veleno di una sopraffazione uguale e contraria. Anzi no, peggiore. “I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni” (ci inchioda Szymborska). Sebbene non ricorrano a psicofarmaci e cocaina. Che sia da parte di una docente dare a due ragazzi dei “minorati mentali” per poi farli condannare alla bocciatura se reagiscono, o ancora umiliare il collega del sostegno, imponendogli, ottuse schede valutative, o ancora di un altro professore, ricattare sessualmente uno studente con il cellulare che gli ha appena sequestrato … fino a quando questo sostrato debordante di misfatti si tratterrà dall’esondare in tutta la sua virulenza di crimini non più nascondibili? (E cosa proveremo noi allora, innanzi a questo labirinto di sistema che crolla – fino all’ultima autoassolutoria etichetta della “buona scuola” — dove ci rifletteremo in questo puzzle di specchi vittima-carnefice, dove posizioneremo i confini tra sacrosanta reattività e distruttiva cancellazione dell’altro?). E poi. Fino a quando ci sarà qualcuno a resistere a tutto questo, ad agire correttamente la propria professionalità nei confronti del ragazzo disabile – quello del sostegno uno degli snodi più delicati e cruciali — a opporsi ai deviati usi del potere del collegio docenti, a difendere i ragazzi dalla loro stessa inconsapevolezza (che vuoi che sia ripetere un anno, prof?), dal loro filtrare anche la morte violenta dallo scafandro del telefonino, senza sentire nulla col corpo e con gli occhi?

Sono stranianti suggestioni da Zooschool, primo magmatico coraggioso lungometraggio di Andrea Tomaselli, una visionarietà che coinvolge innanzitutto per il suo scaturire da una esperienza diretta di docenza (il set, lo stesso istituto di Settimo Torinese dove il regista insegna), l’esito di 6 anni di ricerca sbattimento gioie tra i meandri sanamente imperfetti del cinema a bassissimo budget.
“La scuola caro, è indispensabile. Senza di essa l’uomo crescerebbe in preda agli istinti, che sono cattivi, e soprattutto al più terribile di essi che è l’istinto della libertà. Tu vuoi essere libero?”. Si legge in un dialogo censurato di Sandro Bajini, datato 1961…

Interrogandoci su cinema scuola e libertà, abbiamo invitato Andrea Tomaselli a conversare.
In che modo il tuo luogo di lavoro come insegnante è diventato anche quello come regista.
Decisivo è stato un romanzo, Control, che ho ultimato nel 2009. Volevo fare il punto sui miei primi anni di esperienza come docente. Ci tengo ad adoperare questa parola, perché Danilo Dolci che considero il mio maestro, ci faceva riflettere su come il sostantivo “insegnante”, che più spesso usiamo, significhi fare un segno sull’alunno, sempre lo stesso su ognunoa, dunque producendo passività e omologazione. Invece “docente” è chi è capace di tirare fuori maieuticamente le nostre risorse individuali, uniche. Control lo hanno letto diverse persone e lo hanno subito percepito come un film …


Zooschool mi ha toccato per la sua ruvidezza ben poco consolatoria. Come hai lavorato sul filo di queste psicopatologie pronte a debordare?
Amo frequentare i territori al confine tra “normalità” e “follia”. Di recente, sulla piattaforma Feltrinelli ho pubblicato un racconto su un padre che ha cresciuto figlio e figlia nella convinzione che fuori imperi la peste, motivo per cui tiene entrambi sequestrati in una casa di campagna… Ecco, in questo caso ho indagato le paure genitoriali, ma più in generale credo che la nostra società apparentemente civile ed evoluta si fondi su presupposti vicinissimi alla follia. Anni fa, tra quei volumetti a mille lire, uscì il libercolo di Papalagi, un samoano in viaggio per l’Europa ai primi del ‘900. Le nostre città gli apparivano come un enorme manicomio …


E la scuola?
È l’ambiente in cui lavoro, che amo, però sono conscio di quanto in realtà sia l’istituzione della follia dentro la follia. Partiamo dal presupposto che è un luogo dove i ragazzi sono costretti a fare qualcosa che non vogliono. Quando la scuola è nata nel Medioevo, la gente voleva fortemente imparare (dal latino “studēre”, desiderare). All’origine c’era un desiderio immane di conoscere, che siamo riusciti a trasformare nell’esatto opposto. Abbiamo una scuola vecchissima. Ma la cosa più grave è che nei libri dei pedagogisti ci sono già da tempo tutte le risposte. Come se i medici avessero pubblicato come si fa la colonscopia o l’ecodoppler e nessuno li usasse.


E le storie che racconti in Zooschool in particolare da dove muovono?
Le reazioni estreme di uno dei personaggi si rifanno a fatti accaduti in una scuola tedesca. Ma anche gli altri rami che compongono il film sono ispirati da vicende che ho conosciuto direttamente o che mi hanno raccontato dei colleghi. L’episodio dei ragazzi bocciati perché si erano permessi di dire a un docente che non sapeva insegnare è qualcosa cui ho assistito e su cui ho masticato amaro per anni.


Dal film arriva forte il sadismo che impregna i rapporti tra studenti e professori e tra i docenti (citi il buddismo di Nichiren Daishonin). Quanto questa rete distorta si fonda sull’indifferenza/ connivenza di larga parte della società?
Se si continua a essere compressi in quella che è spacciata come normalità, la violenza è sempre pronta a deflagrare: non solo quella fisica, la più eclatante, ma quella psicologica e verbale, che è causa di mutilazioni psichiche e automutilazioni e che non viene mai denunciata perché è parte integrante della nostra società. La trovi negli ambienti di lavoro, nelle famiglie, e la trovi dentro la scuola, cosa assolutamente normale. Tutte le persone cui facevo leggere la sceneggiatura, tutte, mi dicevano, mi ha ricordato quel professore che ha eroso anni della mia vita. Ecco, dobbiamo operare prima che si inneschi tutto questo.


Che cosa significa cinema horror per te, e come lo hai interpretato in Zooschool.
Una delle scommesse è stata quella di mettere accanto due orrori, quello visivo del corpo insanguinato e quello psico-sociale più strisciante. Volevamo far rabbrividire lo spettatore più di quanto non gli capiti con un certo horror che in realtà lo anestetizza. Per me “horror” è Rosemary’s Baby di Polanski, non tanto cinema dagli anni ’80 in poi. Una montatrice inglese ha parlato di Zooschool come di un “social horror”, visione cui mi sento vicino.


Quali riferimenti nel mare della “cinematografia-Zero in condotta” hai avuto in testa.
Mi sembrava mancasse un certo sguardo. Certo, c’era Elephant di Gus Van Sant, ma era un film troppo importante e lo abbiamo rivisto solo per evitare la tentazione di “rifarlo”. In seguito, ho scoperto Afterschool, che mi ha attratto. Mi ha ispirato anche l’atmosfera di Quel pomeriggio di un giorno da cani di Pollack, che comincia come un film d’azione e poi si apre a una denuncia sulla società americana, a un clima esasperato, al confine tra grottesco e verosimile. Qualcosa su cui abbiamo lavorato con gli attori, ricercando una misura tra realismo e finzione abbastanza dichiarata.


A cosa pensi se ti dico ‘blu’.
È il colore dominante del finale, della violenza ultima. Con questi toni freddi volevamo rendere il cadaverico e il metallico, l’essere fuori dalla vita senza più possibilità di schiarite. Tutto il resto sono colori caldi, a produrre una sorta di struggimento verso quello che nel cinema si chiama “stato di grazia apparente”, un tempo in cui ci si poteva ancora salvare.
Il corpo è uno dei luoghi in rovina del film.
Sento fortemente il dualismo cristiano di cui è impregnata la nostra cultura e avverto una pulsione a recuperare l’unione di carne e idea. Il mio è uno sguardo di pietà verso quel corpo che è continuamente svilito violato negato costretto al dimagrimento, ma anche un rammarico nei confronti di me stesso, di una parte della mia vita, una ferita che inevitabilmente viene fuori.

Maria Grosso
http://ilmanifesto.info/zooschool-un-horror-sociale/

vendredi 4 décembre 2015

Conférence-performance Clown-Philosophie à la Maison Pop de Montreuil


Clown et Philosophie

Vendredi 6 novembre 2015 à 20 h 30
Conférence-performance
Présenté par Violaine Chavanne, professeur de philosophie, comédienne, metteur en scène et chercheuse au LAPS (Laboratoire des Arts et Philosophies de la scène), où elle mène un atelier pratique de recherche explorant les affinités entre le clown et la philosophie.
Accueillie en résidence à la Maison Populaire et accompagnée par Raffaella Gardon, comédienne, metteur en scène, artiste associée du LAPS,  elle a approfondi ce travail avec une dizaine de clowns et exploré en quoi le clown est en lui même une machine philosophique : machine dont le moteur premier, comme pour le philosophe, est l’étonnement ; dont la puissance est métaphysique, puisqu’il transforme l’insignifiant en quelque chose de résolument existentiel ; mais aussi machine politique, arme subversive, puisque le clown convertit ses échecs en situation comique, ses faiblesses en force.

En partenariat avec la compagnie Tant pis pour la Glycine.