Servizio di Vincenzo
Perfetti
Davide Iodice,
regista di una terra “magica”, quella vesuviana, per il Napoli Teatro Festival presenterà
lo spettacolo “Mettersi nei panni degli altri” e il docu-film “Dentro”. Una pièce
che prima di tutto è ricerca antropologica, di espressività e di storie umane
in cui trovano le radici l’arte e il mondo delle “Sette opere di Misericordia”
del Caravaggio. D’altro canto come lui stesso ha affermato, andare al teatro
vuol dire “vedere tutto”, in quanto l’arte è viatico di resistenza per
l’umanità. Il teatro, in un periodo storico quale quello contemporaneo,
alimentato dalla crisi, diventa “un rito collettivo, un confronto collettivo,
un dialogo collettivo” e richiede al pubblico di essere parte in causa. Opere che
mirano alla ripresa di “vitalità” all’interno dei rapporti interpersonali.
Iodice, citando le parole di Neiweller, ricorda ”Né un Dio, né un’idea potranno
salvarci, ma solo una relazione vitale”.
Iodice, lei vuole concentrare questo lavoro sull’empatia,
perché?
Questo concetto è il
tema di fondo che sta dentro tutto il progetto, di cui “Mettersi nei panni
degli altri” è un movimento. Il concetto dell’empatia è fondamentale: è ciò che
secondo me manca in questo tempo critico, in questa crisi costruita dei
mercati, delle banche, dei capitali, dell’Europa. In questa crisi vedetta,
urlata, gridata. La crisi poi è fondamentalmente, la saturazione, la
dissipazione, delle relazioni vitali, umane. È il motore che muove la mia
tensione di teatro verso l’esistenza. Andare verso l’altro. Conoscere l’altro.
Comprenderne le ragioni. Anche perché l’altro non c’è. Siamo noi, l’altro.
L’opera di Caravaggio ha sempre mosso critiche per il suo
essere “quotidiano”, “da strada”. Per Lei, il teatro è più una ricerca
antropologica sull’uomo, oppure, un canale d’espressività?
Shakespeare dice “io
studio l’uomo” e il teatro questo fa ed io cerco di farlo. Da un po’ di tempo
agli uomini di teatro che fanno parte del mio gruppo, non solo attori, ma anche
musicisti, trainer, sto aggiungendo uomini che vivono situazioni particolari e
uomini che non vivono nel mondo dello spettacolo. Questa è una ricerca che
viene da lontano. Anche in altri lavori ho sempre cercato in ambiti diversi la
specialità di un’espressività che non fosse artefatta. Rifare ad arte la vita
più che artefare. E quindi, questo, cerco di farlo mischiando, fondendo,
esperienze diverse. Caravaggio è da sempre un riferimento stilistico e modale,
come modalità di ricerca, perché appunto quel suo gran lavoro sulla “luce”
viene da un profondo attraversamento del buio. Questo attraversamento del buio
è una cosa che io tento di fare, ma non inteso spingendomi in luoghi non
necessariamente dolorosi. Cerco una bellezza residuale. Mi calo in delle
oscurità per poi tentare di tirarne fuori un minimo di luce espressiva. “Più
che fare l’indagine-dice-io faccio l’indigeno”. Mi metto in una condizione, la
vivo, poi sedimento l’esperienza e cerco di tradurla agli attori.
In “Mettersi nei panni degli altri” si parla di “Identità
perduta”. Cosa intende?
Il disagio lo si può
ridurre solo facendo un lavoro di riappropriazione della propria autentica
identità. Chi vive in povertà, non ha più i propri vestiti, le proprie cose.
C’è tutta una rete di assistenza che regala abiti alle persone più povere, ai
senza fissa dimora. E in questi abiti degli altri è come se si fosse anche
smarrita la propria identità. Fra queste mille “pezze” regalate da altri,
bisogna ritrovare il proprio centro, la propria identità. Sono gli ospiti, le
persone che si mettono nei panni non loro. Però, nel percorso dello spettacolo
e con l’esperienza teatrale chiedono al pubblico di operare un’empatia. Di
avvicinare lo sguardo. Di mettersi nei propri panni per riconoscersi umani in
fondo.
Perché ha scelto come riferimenti le opere di Caravaggio,
“Vestire gli ignudi” e “Visitare i detenuti e curare gli ammalati”?
Ho cercato di capire
chi sono per me gli ignudi oggi, quelli che non “se’ ponn’ accattà ‘e pann”, ma
sono anche le persone cadute nello stato di disagio che hanno smarrito la
propria affettività, la propria memoria, la propria identità. I detenuti sono
sempre detenuti…purtroppo.. Sono andato in un luogo particolare, all’OPG
(Ospedale Psichiatrio Giudiziario nds).
C’è un concetto dietro questo luogo. Gli stessi operatori che lavorano sono
straordinari, come ho avuto la fortuna di incontrare io. C’è un punto di
criticità nell’OPG. Infatti, c’è una legge che ci condanna e ci obbliga a
chiuderli, ma non sono ancora chiusi. Infatti sto portando avanti un
laboratorio fino alla data teorica di chiusura, che doveva essere il 1 aprile.
Li ho inteso unire “Visitare i carcerati” e “Curare gli ammalati”. È una
condizione particolare. Ospedale/carcere: c’è un limite sottile tra la colpa e
la malattia (che non può essere mai una colpa). C’è un limite che non si riesce
mai a decifrare fra la colpa e la malattia mentale, che è un campo molto
misterioso. E anche lì ho incontrato persone che hanno ribadito il principio
secondo cui l’uomo può essere uomo ovunque.
Lei è napoletano. Quanto della sua città porta in questo
lavoro?
Innanzitutto, sono
vesuviano, un’area magica alla quale sono molto legato. Dopo l’Accademia, dopo
aver lavorato anche all’estero, sono ritornato a Napoli per la direzione del
Teatro Nuovo, dal ’95 al ’99. Ovviamente, anche quando ho lavorato fuori, c’era
un momento in cui mi è stato chiesto di trasferire il lavoro, la compagnia
Liberamente. Esperienze lavorative fuori dall’Italia (Londra, Parigi) molto
belle, dove tutto è più semplice. Però poi è come se questa ”ferita aperta” che
è Napoli fosse in qualche modo necessaria. Sono ritornato perché
espressivamente, per quanto sia una maledizione resistere in questa città, c’è
tanto. È un motore di suggestione. C’è una dinamica espressiva della città per
cui i suoi artisti non possono non mimarla, non averne un’eco.
Cosa dovrà aspettarsi il pubblico dal suo spettacolo.
Niente. Un buon modo
di andare al teatro è quello di andare a vedere tutto. L’arte è veramente
un’arte di resistenza dell’umanità in questo periodo, in questo tempo, quindi
vale la pena di vedere tutto. Con grande curiosità, empatia. Trovare un buon
modo di leggere le cose è farsi trasparente, andare con ascolto. Il teatro
essendo un rito collettivo, un confronto collettivo, un dialogo collettivo,
richiede di essere parte in causa. Richiede una presenza, c’è bisogno di uno
spettatore attivo, una parte ricettiva. C’è un ascolto da porre in atto che è
di altro tipo rispetto ad una fruizione di uno spettacolo d’intrattenimento.
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