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Il manifesto - Maria Grosso |
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Psicopatologia da una scuola quotidiana. Istituto superiore
professionale. Visioni che si infrangono su sbarre e muri; corridoi come
passaggi minati, traiettorie caotiche di esseri apparentemente umani
(ancora per quanto?): studenti, personale Ata, personale docente – nella
versione di ruolo, o in quella fantasmatica prodotta dalla precarietà
migrante – “personale telefonico-portatile”, dirigente, collaboratrice
della dirigente, eventualmente un dobermann nella telecamera a circuito
chiuso, una sola psicologa (!), e aria gelida sbattuta in faccia da un
inverno del nord Italia. Manco a dirlo, piove. A ogni goccia di
frustrazione iniettata in vena di uno dei protagonisti può corrispondere
il veleno di una sopraffazione uguale e contraria. Anzi no, peggiore.
“I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni” (ci inchioda
Szymborska). Sebbene non ricorrano a psicofarmaci e cocaina. Che sia da
parte di una docente dare a due ragazzi dei “minorati mentali” per poi
farli condannare alla bocciatura se reagiscono, o ancora umiliare il
collega del sostegno, imponendogli, ottuse schede valutative, o ancora
di un altro professore, ricattare sessualmente uno studente con il
cellulare che gli ha appena sequestrato … fino a quando questo sostrato
debordante di misfatti si tratterrà dall’esondare in tutta la sua
virulenza di crimini non più nascondibili? (E cosa proveremo noi allora,
innanzi a questo labirinto di sistema che crolla – fino all’ultima
autoassolutoria etichetta della “buona scuola” — dove ci rifletteremo in
questo puzzle di specchi vittima-carnefice, dove posizioneremo
i confini tra sacrosanta reattività e distruttiva cancellazione
dell’altro?). E poi. Fino a quando ci sarà qualcuno a resistere a tutto
questo, ad agire correttamente la propria professionalità nei confronti
del ragazzo disabile – quello del sostegno uno degli snodi più delicati
e cruciali — a opporsi ai deviati usi del potere del collegio docenti,
a difendere i ragazzi dalla loro stessa inconsapevolezza (che vuoi che
sia ripetere un anno, prof?), dal loro filtrare anche la morte violenta
dallo scafandro del telefonino, senza sentire nulla col corpo e con
gli occhi?
Sono stranianti suggestioni da
Zooschool, primo magmatico coraggioso lungometraggio di Andrea Tomaselli,
una visionarietà che coinvolge innanzitutto per il suo scaturire da una
esperienza diretta di docenza (il set, lo stesso istituto di Settimo
Torinese dove il regista insegna), l’esito di 6 anni di ricerca
sbattimento gioie tra i meandri sanamente imperfetti del cinema
a bassissimo budget.
“La scuola caro, è indispensabile. Senza di essa l’uomo crescerebbe
in preda agli istinti, che sono cattivi, e soprattutto al più terribile
di essi che è l’istinto della libertà. Tu vuoi essere libero?”. Si legge
in un dialogo censurato di Sandro Bajini, datato 1961…
Interrogandoci su cinema scuola e libertà, abbiamo invitato Andrea Tomaselli a conversare.
In che modo il tuo luogo di lavoro come insegnante è diventato anche quello come regista.
Decisivo è stato un romanzo, Control, che ho ultimato nel 2009.
Volevo fare il punto sui miei primi anni di esperienza come docente. Ci
tengo ad adoperare questa parola, perché Danilo Dolci che considero il
mio maestro, ci faceva riflettere su come il sostantivo “insegnante”,
che più spesso usiamo, significhi fare un segno sull’alunno, sempre lo
stesso su ognunoa, dunque producendo passività e omologazione. Invece
“docente” è chi è capace di tirare fuori maieuticamente le nostre
risorse individuali, uniche. Control lo hanno letto diverse persone e lo
hanno subito percepito come un film …
Zooschool mi ha toccato per la sua ruvidezza ben poco
consolatoria. Come hai lavorato sul filo di queste psicopatologie pronte
a debordare?
Amo frequentare i territori al confine tra “normalità” e “follia”. Di
recente, sulla piattaforma Feltrinelli ho pubblicato un racconto su un
padre che ha cresciuto figlio e figlia nella convinzione che fuori
imperi la peste, motivo per cui tiene entrambi sequestrati in una casa
di campagna… Ecco, in questo caso ho indagato le paure genitoriali, ma
più in generale credo che la nostra società apparentemente civile ed
evoluta si fondi su presupposti vicinissimi alla follia. Anni fa, tra
quei volumetti a mille lire, uscì il libercolo di Papalagi, un samoano
in viaggio per l’Europa ai primi del ‘900. Le nostre città gli
apparivano come un enorme manicomio …
E la scuola?
È l’ambiente in cui lavoro, che amo, però sono conscio di quanto in
realtà sia l’istituzione della follia dentro la follia. Partiamo dal
presupposto che è un luogo dove i ragazzi sono costretti a fare qualcosa
che non vogliono. Quando la scuola è nata nel Medioevo, la gente voleva
fortemente imparare (dal latino “studēre”, desiderare). All’origine
c’era un desiderio immane di conoscere, che siamo riusciti a trasformare
nell’esatto opposto. Abbiamo una scuola vecchissima. Ma la cosa più
grave è che nei libri dei pedagogisti ci sono già da tempo tutte le
risposte. Come se i medici avessero pubblicato come si fa la colonscopia
o l’ecodoppler e nessuno li usasse.
E le storie che racconti in Zooschool in particolare da dove muovono?
Le reazioni estreme di uno dei personaggi si rifanno a fatti accaduti
in una scuola tedesca. Ma anche gli altri rami che compongono il film
sono ispirati da vicende che ho conosciuto direttamente o che mi hanno
raccontato dei colleghi. L’episodio dei ragazzi bocciati perché si erano
permessi di dire a un docente che non sapeva insegnare è qualcosa cui
ho assistito e su cui ho masticato amaro per anni.
Dal film arriva forte il sadismo che impregna i rapporti tra
studenti e professori e tra i docenti (citi il buddismo di Nichiren
Daishonin). Quanto questa rete distorta si fonda sull’indifferenza/
connivenza di larga parte della società?
Se si continua a essere compressi in quella che è spacciata come
normalità, la violenza è sempre pronta a deflagrare: non solo quella
fisica, la più eclatante, ma quella psicologica e verbale, che è causa
di mutilazioni psichiche e automutilazioni e che non viene mai
denunciata perché è parte integrante della nostra società. La trovi
negli ambienti di lavoro, nelle famiglie, e la trovi dentro la scuola,
cosa assolutamente normale. Tutte le persone cui facevo leggere la
sceneggiatura, tutte, mi dicevano, mi ha ricordato quel professore che
ha eroso anni della mia vita. Ecco, dobbiamo operare prima che si
inneschi tutto questo.
Che cosa significa cinema horror per te, e come lo hai interpretato in Zooschool.
Una delle scommesse è stata quella di mettere accanto due orrori,
quello visivo del corpo insanguinato e quello psico-sociale più
strisciante. Volevamo far rabbrividire lo spettatore più di quanto non
gli capiti con un certo horror che in realtà lo anestetizza. Per me
“horror” è Rosemary’s Baby di Polanski, non tanto cinema dagli anni ’80
in poi. Una montatrice inglese ha parlato di Zooschool come di un
“social horror”, visione cui mi sento vicino.
Quali riferimenti nel mare della “cinematografia-Zero in condotta” hai avuto in testa.
Mi sembrava mancasse un certo sguardo. Certo, c’era Elephant di Gus
Van Sant, ma era un film troppo importante e lo abbiamo rivisto solo per
evitare la tentazione di “rifarlo”. In seguito, ho scoperto
Afterschool, che mi ha attratto. Mi ha ispirato anche l’atmosfera di
Quel pomeriggio di un giorno da cani di Pollack, che comincia come un
film d’azione e poi si apre a una denuncia sulla società americana, a un
clima esasperato, al confine tra grottesco e verosimile. Qualcosa su
cui abbiamo lavorato con gli attori, ricercando una misura tra realismo
e finzione abbastanza dichiarata.
A cosa pensi se ti dico ‘blu’.
È il colore dominante del finale, della violenza ultima. Con questi
toni freddi volevamo rendere il cadaverico e il metallico, l’essere
fuori dalla vita senza più possibilità di schiarite. Tutto il resto sono
colori caldi, a produrre una sorta di struggimento verso quello che nel
cinema si chiama “stato di grazia apparente”, un tempo in cui ci si
poteva ancora salvare.
Il corpo è uno dei luoghi in rovina del film.
Sento fortemente il dualismo cristiano di cui è impregnata la nostra
cultura e avverto una pulsione a recuperare l’unione di carne e idea. Il
mio è uno sguardo di pietà verso quel corpo che è continuamente svilito
violato negato costretto al dimagrimento, ma anche un rammarico nei
confronti di me stesso, di una parte della mia vita, una ferita che
inevitabilmente viene fuori.
Maria Grosso
http://ilmanifesto.info/zooschool-un-horror-sociale/